Ogni volta che guardo La notte di Michelangelo Antonioni non so mai in quale personaggio femminile identificarmi: da una parte c’è la triste ed elegante Jeanne Moreau, con i suoi occhi languidi e il suo sorriso spezzato, dall’altra parte c’è Monica Vitti immersa nella sua cinica serra di solitudine, a metà tra una figura di maestoso dolore e l’annoiata figlia di papà che gioca a fare la ribelle. Entrambe sole, entrambe inermi in mezzo a una folla di intellettuali, nouveaux riches, borghesi annoiati e viziosi. Vige nei film di Antonioni la regola di interrogarsi sul senso profondo della vita, sugli amori che nascono e si deteriorano, sulla noia che affligge chi della vita non sa più cosa farsene, se non lasciarla defluire tra un evento mondano e l’altro. Della trilogia esistenziale che comprende L’avventura e L’eclisse, La notte è il mio capitolo preferito, forse perché ambientata nella mia Milano, forse perché mi sento particolarmente vicina alle due protagoniste. Lo sguardo di Antonioni è attento alla psicologia della donna, più complessa, a volte più risoluta dell’uomo. Solo Lei è in grado di cogliere quel malessere esistenziale che attanaglia la società dei consumi e delle apparenze. Spesso perdiamo di vista noi stessi per la smania di raggiungere successo e approvazione, per la nostra vanità o per le pressioni che ci vengono fatte dall’esterno. Per Jeanne Moreau vagare in una Milano desolata equivale a cercare di ritrovare se stessa fino ad arrivare a Sesto San Giovanni dove ancora è rimasta quella semplicità e ruralità che rappresenta il primo periodo della sua vita matrimoniale, quando ancora né lei né il marito erano stati contaminati dal lusso e dalla mondanità. Nel film Marcello Mastroianni, che interpreta uno scrittore famoso, si reca con la moglie a una festa in una villa in Brianza e durante una conversazione con il proprietario della villa asserisce che il futuro del Paese è in mano agli industriali poiché, a differenza degli scrittori, essi hanno il vantaggio di costruire i loro racconti con persone vere, con case vere e di conseguenza il ritmo del tempo e della vita è nelle loro mani. Il disincanto di Mastroianni è il grido soffocato di un intellettuale che si accorge di essere impotente di fronte allo sviluppo e al ritmo serrato della nostra moderna civiltà. L’unica consolazione sembrano essere i vizi, i piaceri terreni e carnali che rendono la vita più eccitante, ma anche più indigesta, più insopportabile a causa della sua imprevedibilità.
Mi tornano alla mente alcuni discorsi di Pier Paolo Pasolini in cui egli parlava di un nuovo fascismo che avrebbe afflitto il mondo: il consumismo. Il consumismo genera omologazione e da qui nascono gruppi e masse uniformi, guidate da una fatua e superficiale dittatura dell’apparire poiché sembra che solo i beni materiali siano in grado di darci un’identità.
Tuffarsi ubriachi in piscina, esibire la propria libidine senza freni, giocare a carte e parlare di argomenti insignificanti o citare frasi colte sono tutti sintomi di un malessere che incombe sugli uomini e le donne del nostro tempo. Nel chiasso della festa in Brianza io ritrovo il suono distonico dei miei pensieri, dei miei sogni irrealizzati, delle mie insicurezze, della mia solitudine. Nei fiumi di alcol e risate scomposte cerco di trovare un sollievo al mio perenne affanno, alla mia malcelata inquietudine. E scivolo via, tra una chiacchiera e un’altra finché non termina il buio della sera e l’alba rischiara i volti distrutti, spossati dai bagordi notturni. Forse non cesserà mai questa divisione tra la vita sperata e quella effettivamente vissuta, non arriveremo mai a impiegare il nostro tempo nel migliore dei modi possibili per evitare che la vita ci scivoli tra le mani.
Ma nei momenti in cui ci accorgiamo di essere persi, basterà uno sguardo esterno per vedere da fuori come nessuno ci obblighi a incedere assopiti lungo una strada che non ci appartiene e che probabilmente non ci è mai appartenuta.
Alice Bonvini