Il gorgoglio del mondo – La poetica di Miguel Hernández

miguel hernandez murales san isidro orihuela

Agli inizi del ‘900 viveva in Spagna un giovane poeta, la cui vita fu estremamente influenzata dal corso degli eventi della storia, di cui porta testimonianza.
Miguel Hernández nasce il 30 ottobre 1910 a Orihuela, un piccolo paesino rurale nel Sud della Spagna, e l’interesse per lo studio lo porterà a spostarsi nella capitale, per portare avanti il suo sogno di apprendere ed esprimere la sua arte poetica. Da Orihuela a Madrid, e di nuovo a Orihuela, e poi ancora in città, cercando poesia in ogni difficoltà della vita. Cercando poesia anche tra le amicizie, tra Raphael Alberti, Manuel Altolaguirre e Luis Cernuda; intrattiene una profonda corrispondenza con Federico Garcia Lorca. Arruolatosi poi nell’esercito antifranchista, fu profondamente segnato dall’esperienza della guerra. Costretto a scappare, fu successivamente imprigionato, e poi misteriosamente scarcerato, secondo alcune voci grazie all’intervento dell’amico Pablo Neruda.

Tra le varie lotte e i vari travagli di una vita impregnata del suo secolo, c’è un piccolo, dolce dettaglio che colpisce di questo poeta pastore, prigioniero, tenace, un gesto che caratterizza un’unicità del sentire, che Miguel fa propria e trasmette attraverso l’uso di una parola poetica semplice e delicata.
Il poeta narra dell’attimo in cui tra i pascoli trova un momento magico, di ascolto e di pace, posando l’orecchio sul ventre di una capra: sente il rumore del latte, del nutrimento che si crea per continuare la vita. In questo gorgoglio si sente la forza della vita stessa che lotta, che continua, che nutre altra vita, per esistere un istante nell’equilibrio misterioso e sorprendente della Natura. Il mondo ci parla, si mostra a noi in continuazione, nel suo ciclo naturale e perenne, di spietatezza e di meraviglia, di vita e di morte, di trasformazione.

Questo piccolo gesto del poeta ci insegna ad ascoltare, a guardare la vita nel profondo, a scrutare i motivi dell’esistenza e i suoi meccanismi, ad accettarne i bisogni. Ci spinge a sentirci parte di un universo vivente, ascoltarlo con attenzione può spaventare, ma porta in fondo una grande serenità. Ascoltiamo il mondo e cerchiamo di comunicarlo, di imitarlo, di farlo nostro; partecipando alle sue pulsazioni, lo vediamo, lo re-immaginiamo e vogliamo riprodurlo attraverso l’arte, come irrimediabili cantastorie. Forse è questo che abbiamo sempre fatto, che abbiamo bisogno di fare, necessità primitiva dell’umanità: ascoltare e a narrare le storie del mondo.

Nella sua terra natale, Miguel Hernández è amato e ricordato con affetto dai concittadini. Qui a Orihuela, il quartiere di San Isidro è colorato da tanti murales: ritraggono donne, uomini, contadini, scrittrici, pensatori e poeti, e parlano di pace, cultura e libertà.

Elena Tondo

*

Sono fango benché io sia Miguel

Sono fango benché io sia Miguel.
Fango è il mio mestiere e il mio destino
che sporca con la lingua ciò che lecca.
Sono un triste strumento del cammino.
Sono una lingua dolcemente infame
ai piedi che idolatro dispiegata.
Come un notturno bue d’acqua e maggese
che vuole esser creatura idolatrata,
investo le tue scarpe e tutto quanto attorno,
e intrecciato di baci e di tappeti
il tuo tallone ostile bacio e spargo di fiori.
Ripongo reliquari del mio aspetto
sul tuo tallone brusco, sul tuo passo,
e ogni volta il tuo passo sopravanzo
perché incurante il piede tuo disprezzi
tutto l’amore che al tuo piede innalzo.
Più fradicio che il volto del mio pianto,
quando del ghiaccio il vetro folto bela,
quando inverno la tua finestra chiude
porto ai tuoi piedi un astore dall’ala,
dall’ala sporca e dal cuore di terra.
Porto ai tuoi piedi un ramo tormentato
di umile miele calpestato e solo,
un disprezzato cuore ormai caduto
in forma d’alga e in somiglianza d’onda.
Fango, invano mi copro di papaveri,
fango, invano io spargo le mie braccia,
fango, invano io mordo i tuoi talloni,
dandoti con piagati colpi d’ala
rospi che sembrano convulsi cuori.
Appena mi calpesti, o mi avvicini
l’immagine dell’orma sulla testa,
si lacera e si rompe l’armatura
di mosto bipartito che mi cinge la bocca
in carne viva e pura,
chiedendo che l’opprima pezzo a pezzo
il tuo piede di lepre sciolta e folle.
La sua tacita panna si fa grappolo
e scuotono i singhiozzi il suo albereto
di lana cerebrale quando passi.
Tu passi, e lì rimane
a bruciare la cera d’inverno nel tramonto,
martire, gemma e pasto della ruota.
Stanco di sottomettersi ai pugnali
circolanti del carro e della zampa,
temi dal fango un parto di animali
di pelle corrosiva e di vindice unghia.
Temi che il fango cresca in un momento,
temi che cresca e salga e copra dolce,
dolce e gelosamente
la caviglia di giunco, il mio tormento,
temi che inondi il nardo della gamba
e cresca ancora e ascenda alla tua fronte.
Temi che si sollevi tempestoso
dal molle territorio dell’inverno
e irrompa e tuoni e cada diluviando
sopra il tuo sangue duramente dolce.
Temi un assalto di oltraggiata schiuma
e temi un amoroso cataclisma.
Prima che lo consumi la calura
il fango ha da mutarti in altro fango.

*

Tutto era azzurro

Tutto era azzurro davanti a quegli occhi ed era
verde fin alle viscere, dorato fin a molto lontano.
Perché il colore trovava la sua prima incarnazione
dentro quegli occhi dai fragili riflessi.
Occhi nascenti: luci in una duplice sfera.
Tutto irradiava intorno come un suolare di specchi.
Vivificare le cose per la primavera
fu il potere di certi occhi che non furono mai vecchi.
Li divorano. Sai? Non sono felice. Non c’è piacere
come sentire quello sguardo straripante.
Quando m’allontanai, mi dispensai dal giorno.
La chiarezza germogliava al loro diretto sfiorare,
ma li divorarono. E stanno germogliando ora
penombre come il bruno rossore dell’agonia.

*

Ultima canzone

Dipinta, non vuota:
dipinta è la mia casa
del colore delle grandi
passioni e disgrazie.
Ritornerà dal pianto
dove fu portata
con il suo tavolo deserto
con il suo letto rovinoso.
Fioriranno i baci
sopra i cuscini.
E intorno ai corpi
solleverà il lenzuolo
il suo intenso rampicante
notturno, profumato.
L’odio ammortisce
dietro la finestra.
Sarà artiglio soave.
Lasciatemi la speranza.

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